City

Sono arrivata in città, ma nessuno mi sta aspettando.

Si poteva tentare altrimenti: vivere la storia in prima persona, del perimetro cittadino dal di dentro, magari rappresentandosi o affidando l’umano alla metropoli. Si potevano fissare i gesti del quotidiano, distendere lo sguardo su orizzonti famigliari e tranquillizzare l’osservatore. Oppure no: City è luogo troppo intento a rappresentarsi ostile come è.

Si gioca nella totale assenza dell’uomo, l’ incontro fra fotografo e città, che afferra istanti di irragionevole solitudine, sotto cieli piombati bianco/nero in dialogo costante con Metropolis: di Lang macchina infernale, che l’autore cita e rievoca, alla quale rivolge il suo rancore digitale.

E’ il 1927. E’ la conquista di un diabolico progresso, la corsa degli operai del sottosuolo impiegati nella fucina del capitalismo: schiavi ingrassatori di ingranaggi, addetti a furibonde ciminiere fino allo scadere del turno.

Spariscono poi, a fine lavoro, nelle loro case confinanti destinate al sonno. Sono riusciti a diventare insetti, lì nel sottosuolo.

Ciò che disturba nella narrazione, è l’esclusione dei perimetri umani da quelli cittadini. Nessuna traccia di vita, se non trincerata dietro claustrofobiche barriere di cemento che gli abitanti fantasma hanno eretto. “Today I will tell you the legend of the Tower of Babel!” Il vetro si spacca, la finestra notturna è una casella accesa nel totem di mattoni eretto a Moloch, in cima al quale gli uomini finiscono per essere inghiottiti dalle proprie stanze, seppelliti dai soffitti, sigillati dal pvc, delle finestre. Gli spiragli dei palazzi sono affacci tremuli di una composizione simmetrica cittadino-popolare, popolo assente.

La sequenza narrativa è senza speranza, ma la libertà di Bonaldo non somiglia a nessuna: distorce, sgrana, smuove e disturba: ripeto. Alcuni fotogrammi traducono la città notturna con un veloce passaggio.

La risposta a Metropolis marcia con un plotone di formiche-uomo, raggruppato nelle geometrie di un reticolo: troppo chiuso, per quanto alto, per essere ospitale. Si parla di alienazione, della perdita d’identità: un presagio che l’autore coglie nell’opera cinematografica di inizio secolo, l’umanità consegnata all’automazione. Allo stesso modo il fotografo è costruttore di prigioni casalinghe, che separano le ore di lavoro dalle prime luci del giorno; traccia i percorsi dei centri commerciali, la domenica, quando per riposare nel dì di festa, ci si rintana ancora nel cemento e per glorificare ogni sforzo, si consuma: tutto.

Con l’ultimo fotogramma, sono scappata.

Laura Lomuscio



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